giovedì 31 gennaio 2019

L'Italia delle decisioni opache

L’ordinamento europeo si orienta verso una sempre maggiore trasparenza delle istituzioni. In Italia restano invece zone d’ombra, dall’attività delle commissioni parlamentari alla regolamentazione delle lobby e alla valutazione delle politiche pubbliche.
Anche i triloghi diventano pubblici
Per garantire ai cittadini “una migliore conoscenza dell’operato dei pubblici poteri” e, quindi, una più stretta partecipazione ai processi decisionali, l’ordinamento europeo si è progressivamente evoluto verso una maggiore trasparenza delle istituzioni. A ciò hanno contribuito nel tempo anche alcune pronunce dei giudici. L’ultima è la sentenza del tribunale dell’Unione europea che, il 22 marzo scorso, ha consentito l’accesso integrale alle tabelle a quattro colonne redatte nell’ambito dei cosiddetti triloghi, negoziati informali fra i due co-legislatori (Parlamento e Consiglio), finalizzati a raggiungere un’intesa per la successiva adozione formale degli atti legislativi. I negoziati non vengono contemplati dai trattati dell’Unione europea, ma sono diventati comuni nella pratica poiché la soluzione “ufficiale” prevista in caso di divergenza tra le due istituzioni – la“conciliazione”, cui può ricorrersi solo nella fase conclusiva dei lavori- si è dimostrata complessa e poco efficiente. I triloghi – possibili, invece, in ogni fase – hanno reso più spedita la co-decisione, che costituisce la procedura legislativa ordinaria dopo il trattato di Lisbona. Tuttavia, le trattative dei triloghi presentano un aspetto critico in termini di trasparenza: si svolgono a porte chiuse.
Il citato documento a quattro colonne “è l’unico atto che consente sia di tenere traccia di quanto effettivamente accade durante le riunioni, che di conoscere l’evoluzione delle posizioni espresse dalle delegazioni partecipanti”: ma mentre le prime due colonne del documento – proposta della Commissione e posizione del Parlamento – sono pubbliche, le altre due – posizione del Consiglio e proposta di compromesso – sono normalmente segretate. A questo riguardo, in seguito a un’inchiesta sui triloghi svolta nel 2015, il difensore civico europeo ha  richiamato a una maggiore trasparenza. E la sentenza di marzo del tribunale dell’UE, sancendo che non esiste una “presunzione generale di non divulgazione” relativamente alle procedure legislative dell’Unione, ha dato ampia applicazione ai principi di pubblicità e trasparenza delle stesse. “L’esercizio da parte dei cittadini dei loro diritti democratici presuppone la possibilità di seguire in dettaglio il processo decisionale all’interno delle istituzioni che partecipano alle procedure legislative e di avere accesso a tutte le informazioni pertinenti” (punto 98). Del resto, in ogni democrazia rappresentativa – UE o ordinamenti nazionali – “la rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità”, non “in segreto e a quattr’occhi”.
La situazione in Italia
Ma qual è il grado di la trasparenza del processo decisionale dei legislatori italiani?
In Italia vige il principio della pubblicità delle sedute delle Camere (articolo 64 Costituzione), per garantire la conoscibilità alle scelte operate, e la tecnologia ha consentito una sempre maggiore informazione sui lavori dell’assemblea. Eppure, restano margini di opacità nell’azione dei decisori. Innanzitutto, vi sono zone d’ombra sul funzionamento delle commissioni parlamentari permanenti, “cuore del processo legislativo(…). È in questi organi che si svolge la maggior parte del lavoro sugli emendamenti, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni”. Solo per le sedute delle commissioni in sede deliberante o redigente vi è l’obbligo – non sempre rispettato– del resoconto stenografico (articolo 65 regolamento Camera; articoli 60 e 33 regolamento Senato) e può essere richiesta la pubblicità dei lavori.Invece, se le commissioni si riuniscono in sede referente o consultiva vengono stilati solo “resoconti sommari con molte poche informazioni. La poca accountability e trasparenza è evidente anche nelle votazioni. Il voto elettronico non è la regola, ed è quindi impossibile ricostruire come i membri delle commissioni votino sui singoli emendamenti, articoli, provvedimenti”.
In secondo luogo, in Italia non esiste una disciplina delle lobby e, pertanto, a differenza di quanto accade in UE, vi è totale opacità sulle “pressioni” che influenzano il processo legislativo.
Inoltre, vengono poco e male usati strumenti per la trasparenza della regolamentazione prodotta dal governo: l’analisi di impatto, cioè la valutazione preventiva di costi e benefici delle ipotesi di intervento normativo, mediante comparazione di opzioni alternative; e la verifica di impatto, vale a dire il successivo esame degli effetti prodotti dall’opzione prescelta.
Infine, manca un compiuto “ciclo di valutazione” delle politiche pubbliche, non solo per i profili regolatori, ma soprattutto per quelli inerenti alla definizione del problema da risolvere, agli studi di fattibilità delle diverse ipotesi di azione, al controllo in itineree alla verifica dei risultati: la trasparenza di tale “ciclo” consentirebbe un’effettiva conoscenza dell’operato dei pubblici poteri.
I margini di opacità sui processi decisionali restano, dunque, rilevanti. L’auspicio è che i recenti sviluppi in sede UE verso una maggiore trasparenza possano orientare nel medesimo senso anche l’ambito italiano.
*Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

Vitalba Azzolini
07.08.18
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domenica 13 gennaio 2019

Autorità indipendenti, nell’interesse dei cittadini*

Le dimissioni di Mario Nava dalla Consob hanno alimentato il “sospetto inquietante” che si sia trattato solo di uno scontro di potere. Ma le istituzioni indipendenti vanno sottratte a queste logiche Perché hanno un ruolo essenziale nelle economie moderne.

Le dimissioni di Mario Nava
Sulle dimissioni di Mario Nava da presidente della Consob sarebbe opportuno qualche chiarimento.
Pur non avendo avuto occasione per conoscerlo personalmente, non ho dubbi sull’elevatissimo livello professionale di Nava. Ho pensato, e continuo a pensare, che fosse un presidente del tutto idoneo alla carica. Inoltre, le sue dichiarazioni programmatiche dei mesi scorsi, richiamate nel messaggio delle dimissioni, indicano una linea di conduzione della Consob che mi pare molto opportuna per il necessario e urgente rilancio di questa istituzione fondamentale nel sistema finanziario. Le sue dimissioni sono una perdita per l’Italia.
Non mi convince invece, e mi preoccupa, la loro motivazione, cioè il “totale non gradimento politico” che “limita l’azione della Consob in quanto la isola e non permette il raggiungimento degli obiettivi”.
L’espressione è grave, dato che la convivenza di un’autorità indipendente con una maggioranza politica diversa da quella che l’ha nominata è normale nelle democrazie e si è più volte verificata anche in Italia, senza essere stata mai causa di paralisi operativa né di strappi alle scadenze istituzionali.
Che il governo in carica intenda disconoscere l’indipendenza delle autorità indipendenti è un “sospetto inquietante”.
Va in questa direzione l’infelice dichiarazione del ministro Di Maio, pronunciata subito dopo le dimissioni di Nava, che confonde la Commissione europea con la “finanza internazionale” e considera questa e anche quella come antitetiche all’interesse dello Stato. Ma il ministro ha collezionato in pochi mesi così tante dichiarazioni poi smentite che è consigliabile molta cautela prima di considerare un’esternazione a caldo su un social network come un atto di governo.
I gruppi parlamentari dei partiti di maggioranza avevano valutato che la situazione contrattuale del presidente Nava richiedesse le sue dimissioni. In effetti, l’assenza di incompatibilità tra una nomina settennale al vertice di un’autorità indipendente nazionale e la permanenza di un rapporto di lavoro dipendente con un’istituzione europea, pur mitigato da un comando triennale (ma non da un’aspettativa settennale), è opinabile.
La questione poteva essere approfondita sul piano del diritto e su quello della correttezza istituzionale con cautela, che doveva essere tanto maggiore essendovi un ovvio interesse dell’attuale maggioranza a cogliere l’occasione per liberare un posto importante.
Il ruolo delle Autorità
Invece, le dimissioni con la loro motivazione, e poi i commenti e le cronache dei retroscena, tendono proprio a confermare quel “sospetto inquietante” e addirittura a considerare ovvio che sia in atto solo uno scontro di potere, in cui la questione dell’eventuale incompatibilità sarebbe stata unicamente un pretesto.
Sarebbe gravissimo se il mondo della politica e quello dei mezzi d’informazione si rassegnassero a questa logica. Le istituzioni dette “indipendenti” sono essenziali per governare i mercati. La loro indipendenza è limitata entro una missione che è stata fissata dagli organismi elettivi ed esse devono perseguirla seguendo regole e procedure che sono state stabilite in un quadro di consenso istituzionale. Proprio per questo esse operano con un orizzonte temporale slegato dalle vicende politiche e devono essere sottratte alle invasioni di campo estemporanee.
Su questo sarebbe bene che tutte le forze politiche fossero d’accordo, altrimenti facciamo un passo non solo verso l’uscita dall’euro e dall’Unione europea, ma dall’ambito dei paesi che cercano seriamente di governare un’economia moderna nell’interesse dei cittadini.
* Questo articolo è pubblicato anche sulla pagina Linkedin di Pippo Ranci.

Pippo Ranci

21.09.18

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domenica 6 gennaio 2019

Armi in casa: se l’Italia segue il cattivo esempio degli Usa

Negli Stati Uniti è facile per chiunque acquistare un’arma da fuoco. L’influenza politica della Nra blocca qualsiasi iniziativa di regolamentazione più rigida. In Italia la lobby delle armi ai privati agisce da pochi anni. Ma ha già ottenuto successi.

La regolamentazione della detenzione di armi
Un’altra, l’ennesima, strage in America: undici morti in una sinagoga uccisi da uno squilibrato con un fucile semi-automatico. Il messaggio del presidente Trump è stato immediato: ci vogliono più guardie armate e la pena di morte deve essere applicata di più. Nessun commento, invece, sulla regolamentazione delle armi da fuoco.
Il silenzio di Donald Trump sul tema è assordante, perché negli Stati Uniti la regolamentazione si limita a un controllo dei precedenti (background check) per impedire ai negozi di vendere armi ai criminali e agli psicolabili. Ma siccome il 40 per cento delle vendite avviene tra privati, è facile (e legale) ottenere un’arma anche per criminali e psicolabili.
In Italia, stiamo andando nella stessa direzione?
Il decreto legge 104/2018 riduce gli ostacoli alla detenzione di armi in casa: d’ora in avanti, si dovrà soltanto presentare un certificato Asl che attesti l’assenza di malattie mentali. Il decreto è la risposta politica a una promessa elettorale di Matteo Salvini: tutelare l’esercizio della legittima difesa. Il punto ancora più interessante è che durante la campagna elettorale Salvini si è impegnato a consultarsi con la lobby italiana delle armi, rappresentata dal Comitato Direttiva 477 (Associazione per la difesa dei diritti dei detentori legali di armi). Il che ci porta al tema dell’attività di lobbying.
Come agiscono le lobby al tempo dei social
L’associazione Comitato Direttiva 477 promuove gli interessi dei detentori legali di armi. Il sito web non è molto trasparente riguardo alle fonti di finanziamento, però rivela una “collaborazione” con varie associazioni di armaioli e di commercianti del settore. Ed è membro di Firearms United, l’associazione a livello europeo. La missione di Firearms United è esplicita: bloccare regolamentazioni europee tese a ridurre l’accesso alle armi da fuoco.
Negli Stati Uniti, i detentori di armi da fuoco sono invece rappresentati dalla National Rifle Association. L’associazione, fondata nel 1871, si definisce “la più antica organizzazione dei diritti civili degli Usa”. È una delle lobby americane più influenti a livello elettorale, più di altre industrie che pure hanno giri d’affari molto più consistenti.
Il potere politico della Nra non deriva dal denaro, ma dalla capacità di mobilitare e coordinare attivisti a livello locale contro qualsiasi candidato che si schieri a favore di una maggiore regolamentazione delle armi. Il suo potere è quindi limitato a circoscrizioni rurali, dove ci sono tanti attivisti (cacciatori) e l’arma da fuoco è vista come una protezione e anche come uno stile di vita (andare a caccia con i figli). Ma siccome negli Usa le circoscrizioni rurali sono tante, la lobby è una potenza a livello nazionale. Dunque, c’è un filo diretto fra la potenza politica della Nra e la regolamentazione (debole) delle armi da fuoco.
In Italia, la lobby dei detentori di armi non è ancora potente come la Nra. Però, se si considera che è stata fondata solo tre anni fa, si può dire che sta avendo un notevole successo. Come negli Usa, anche nel nostro paese la lobby è politicamente influente perché è capace di coordinare consenso e portare voti. Si tratta di un fenomeno nuovo e diverso dalle lobby “tradizionali” dei settori industriali. Un tempo, poche lobby erano in grado di organizzare direttamente il consenso a causa della difficoltà di raggiungere il votante. Il consenso veniva coordinato dai mass media e attraverso i partiti politici. Oggi invece social media, email, messaging facilitano un contatto diretto con i cittadini e quindi i gruppi di pressione che vengono “dal basso”, cioè dai consumatori invece che dai produttori, hanno una influenza sempre crescente. Non a caso, Comitato Direttiva 477 rappresenta i detentori e non i produttori di armi.
Se i nuovi media favoriscono il nuovo tipo di lobbying “dei consumatori” rispetto a quello “dei produttori”, cosa possiamo aspettarci riguardo alla regolamentazione delle armi da fuoco? Se una lobby raccoglie istanze molto sentite da alcuni consumatori, sarà più capace di mobilitarli e quindi più potente rispetto a un gruppo di consumatori magari molto più grande, ma meno motivato. Nel caso delle armi, è probabile che chi le detiene o le vuole detenere (cacciatori, appassionati) sia molto più motivato della persona media che alle armi pensa poco e magari è contrario al loro uso. E dunque sarà più facile per un lobbista operare a favore del gruppo di votanti che vuole le armi e convincere i politici che questo gruppo di cittadini voterà a seconda delle scelte sulla regolamentazione delle armi.
Se l’analisi è corretta, allora possiamo aspettarci che la giovane lobby dei possessori di armi in futuro acquisterà maggiore potere politico anche nel nostro paese. E quindi si può prevedere che sulla regolamentazione delle armi da fuoco, l’Italia si muoverà nella direzione degli Stati Uniti.

Nicola Persico

30.10.18
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lunedì 31 dicembre 2018

Così la legge di bilancio cambia la finanza locale

Semplificazione delle regole fiscali, rilancio degli investimenti e sblocco delle aliquote delle imposte locali: sono le misure principali della legge di bilancio per regioni ed enti locali. Il rischio è che restino solo provvedimenti sulla carta.

I principali interventi
Il disegno di legge di bilancio modifica alcuni aspetti importanti che interessano regioni e altri enti locali. Gli interventi più rilevanti riguardano sicuramente l’ulteriore semplificazione delle regole fiscali, dopo l’eliminazione del patto di stabilità nel 2016, il rilancio degli investimenti e lo sblocco della possibilità di variare le aliquote delle imposte locali. Dal punto di vista mediatico, tuttavia, l’attenzione si è soffermata in particolare sul taglio dei trasferimenti agli enti locali qualora questi non riducano, a loro volta, i vitalizi. Se quest’ultimo punto comporta – eventuali – risparmi molto modesti, gli altri sono interventi con forti potenzialità, ma che rischiano di restare solo sulla carta. Cerchiamo di capire il perché, anche con l’aiuto delle audizioni della Corte dei conti, dell’Istat e dell’Ufficio parlamentare di bilancio.
Per quanto riguarda la semplificazione delle regole fiscali (articolo 60), fondamentale è stato probabilmente il ruolo di una serie di sentenze della Consulta (la 247/2017 e la 101/2018) sulla piena disponibilità per gli enti locali sia degli avanzi di amministrazione sia delle risorse presenti nel fondo pluriennale vincolato. Di qui, la ridefinizione della regola del pareggio di bilancio esclusivamente in termini di saldo di bilancio di competenza, che deve essere non negativo (la norma si applica a tutti gli enti dal 2019, salvo le regioni a statuto ordinario per cui la regola parte dal 2020). Si tratta di una misura che – nella speranza che i fondi liberati siano effettivamente utilizzati – comporta nuovi oneri, stimati per 400 milioni di euro nel 2020, 700 milioni nel 2012 e poi in crescita negli anni successivi (oltre 11 miliardi cumulati nei primi 10 anni e 1,5 miliardi annui dal 2028 in poi).
Per quanto riguarda il rilancio degli investimenti (articoli 61 e 70), invece, nell’intenzione del legislatore ciò avverrà attraverso la riduzione del contributo delle regioni a statuto ordinario alla finanza pubblica (750 milioni di euro nel 2019) e con l’assegnazione di fondi per gli investimenti – che possono essere diretti o indiretti – pari 2,5 miliardi di euro nel 2020 e a 1,7 miliardi nel 2021.
Nello stesso tempo, non è prorogato il blocco all’uso della leva fiscale, vale a dire della possibilità di aumentare le aliquote delle imposte locali, che era in vigore dal 2016.
Le potenzialità di queste misure sono evidenti, anche se non mancano le criticità. La prima è dovuta al fatto che lo svincolo degli avanzi di amministrazione potrebbe tradursi non solo – o non tanto – in aumento degli investimenti, bensì in mero incremento della spesa corrente, probabilmente un effetto perverso delle previsioni governative. Inoltre, liberare la leva fiscale (questa misura sì invece direttamente collegata alla possibilità degli enti di personalizzare la propria spesa corrente) potrebbe tradursi in aumento eccessivo dello sforzo fiscale per quegli enti con pochi o nulli avanzi di amministrazione disponibili ma desiderosi comunque, anche solo per motivi elettorali, di poter ricominciare a espandere la propria dimensione.
Le misure simboliche
Più modesta appare la portata di altre misure, che pure hanno trovato una certa attenzione mediatica. Da un lato, la “piena attuazione dei principi in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario”, così come stabiliti dal Dlgs 68/2011, vale a dire il decreto attuativo della legge delega 42/2009 sull’applicazione dell’articolo 119 della Costituzione (articolo 72). È una previsione che non comporta spesa o oneri per lo stato e che rimanda le proposte operative al lavoro di un apposito tavolo tecnico. Probabilmente è una buona idea, per dare continuità e omogeneità a un quadro ancora frammentario e incompleto nella finanza regionale. Ma certamente sarebbe stata realizzabile anche senza un articolo dedicato nella legge di bilancio.
Dall’altro lato, c’è l’incentivo alla riduzione dei costi della politica nelle regioni a statuto speciale e ordinario e nelle province autonome: l’articolo 75 prevede che una quota pari all’80 per cento dei trasferimenti erariali disposti a loro favore – al netto tuttavia di quelli destinati alla sanità, alle politiche sociali al trasporto pubblico (di fatto, ben oltre il 90 per cento del bilancio regionale) – sia vincolata alla ridefinizione dei trattamenti previdenziali e dei vitalizi del personale politico degli enti. I risparmi attesi dall’operazione non vengono nemmeno quantificati dalla relazione tecnica, tanta è l’importanza reale attribuita al provvedimento o alla speranza che venga attuato.

Paolo Balduzzi

16.11.18
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lunedì 24 dicembre 2018

Come risolvere il dilemma dei compiti a casa

Compiti a casa sì o no? Secondo gli studi e le indagini internazionali hanno vantaggi e svantaggi. Ma le soluzioni alternative ci sono e spetta ai responsabili delle politiche educative decidere. Certo non è un tema da affrontare con una circolare.

Le ragioni degli insegnanti
Con le vacanze di Natale torna la polemica sui compiti a casa. Vissuti solitamente come una iattura dagli studenti e come motivo di stress dai genitori, a volte catturano anche l’attenzione dei responsabili delle politiche educative. L’ultimo è il ministro Bussetti che ha annunciato una circolare in merito, ma prima di lui già il ministro Profumo si era detto contrario a eccessivi carichi di lavoro a casa per gli studenti. I docenti, però, continuano in larga parte a fare affidamento sui compiti a casa, confidando che gli studenti svolgano una quota di studio in autonomia.
Una delle ragioni è che, nella ricerca del metodo di studio per sé più congeniale, ogni studente deve imparare ad alternare il lavoro condiviso svolto in classe con momenti di apprendimento autonomo. I compiti a casa favoriscono questa seconda pratica. Da tempo, la ricerca ha poi messo in evidenza come le interruzioni (più o meno lunghe) delle attività scolastiche comportino un decadimento dei livelli di apprendimento (learning decay/skills deterioration). Alcuni studi quantificano quello dopo le vacanze estive in media nell’equivalente di un mese di scuola. L’arretramento non colpisce allo stesso modo tutti gli studenti e ogni tipo di competenza: cresce al crescere del grado scolastico (perché nozioni, saperi e metodi diventano via via più complessi); è più accentuato in matematica; colpisce maggiormente chi ha profili di competenza più fragili (perché è più facile preservare il proprio livello di competenza quando è già elevato) e chi ha un retroterra familiare meno avvantaggiato (perché solitamente meno esposto a stimoli educativi in ambiente domestico).
È anche per scongiurare questi rischi che i docenti fanno ricorso ai compiti a casa.
Ma i compiti a casa fanno davvero bene?
Per le indagini internazionali sui livelli di apprendimento, gli studenti italiani sono tra quelli che dichiarano un elevato carico di lavoro in forma di compiti a casa. Secondo IEA Trends in International Mathematics and Science Study del 2015, i ragazzi di terza media (grado 8) che dichiarano di dedicare fino a 45 minuti la settimana ai compiti a casa di matematica hanno 486 come punteggio nei test (significativamente sotto la media internazionale di 500); chi dichiara un impegno domestico tra i 45 minuti e le 3 ore la settimana sale a 502; scende invece di nuovo a 488 chi dice di studiare la matematica oltre 3 ore alla settimana. Dunque, i compiti a casa fanno bene agli apprendimenti, ma per evitare effetti indesiderati è meglio non eccedere.
C’è anche un altro effetto collaterale indesiderato. I compiti a casa sono uno dei canali attraverso i quali si allargano i divari di apprendimento tra studenti con diverso retroterra socio-culturale. Sempre Timss ci dice che, rispetto a uno studente con genitori istruiti fino alla licenza media, un figlio di diplomati ha una probabilità del 15 per cento più alta di dichiarare un maggior tempo speso a fare i compiti a casa (+23 per cento per un figlio di laureati). Peraltro, anche senza tempo disponibile, i genitori più istruiti (spesso con condizioni di reddito più favorevoli) possono ricorrere con più agio a “lezioni private” per aiutare i figli nello studio a casa.
Risultati analoghi si registrano anche alle superiori (si veda l’indagine Ocse Pisa).
Si può farne a meno?
Le evidenze indicano anche alcuni possibili rimedi alla caduta degli apprendimenti dovuta alle pause scolastiche e agli effetti deleteri associati a un eccessivo carico di compiti a casa.
A livello istituzionale, si potrebbe rimodulare il calendario scolastico così da non avere pause lunghe e concentrate, ma più brevi e spalmate sull’intero anno. È una soluzione già adottata in molti paesi; in Italia però richiederebbe cambiamenti non banali anche in termini di edilizia scolastica e spazi educativi.
Un altro rimedio ha a che fare con l’estensione del tempo scuola alle ore pomeridiane non per svolgere attività ordinaria, ma per individualizzare l’offerta formativa con attività integrative e di recupero per chi è in ritardo e attività di potenziamento e approfondimento per gli altri. In alcune scuole italiane è già una buona pratica; se fosse istituzionalizzata potrebbe dare un senso all’organico dell’autonomia che oggi “un senso non ce l’ha”. Non a caso nelle scuole primarie, dove il tempo scuola è più esteso e l’impianto pedagogico è diverso, il ricorso ad attività di studio extra-scolastiche è più limitato rispetto alle medie (fonte: Timss 2015 grado 4 rispetto a grado 8). Alle medie, dove i saperi si frammentano e si aprono i gap di apprendimento che determineranno le scelte future e i destini educativi, il tempo pieno/lungo/prolungato è una chimera e comincia a crescere il carico dei compiti a casa, con tutte le conseguenze del caso.
Dunque, le soluzioni esistono e sono nelle mani dei responsabili delle politiche educative; ma non sono temi che si possano affrontare con una circolare ministeriale.

Gianfranco De Simone
14.12.2018
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martedì 18 dicembre 2018

Quel senso di ingiustizia che anima la protesta dei gilet gialli

La tassa sui carburanti che ha innescato la protesta dei gilet gialli è solo la punta dell’iceberg di un diffuso senso di iniquità. Ma è desolante che alle richieste di chi si sente escluso e lasciato indietro si risponda solo con ricette populiste.

Dall’economia due verità sgradevoli
Le proteste dei gilet gialli sono state uno degli argomenti di cui si è più discusso nelle ultime settimane, fino a indurre il presidente francese Macron a presentarsi in televisione per dire che ha capito le ragioni dei manifestanti e che adotterà misure per venire incontro alle loro esigenze. L’innesco delle proteste è stato un aumento delle tasse sui carburanti, che penalizzano specialmente chi abita nelle periferie, e quindi usa l’auto per andare al lavoro, e i proprietari di auto più inquinanti. Proprio in questa settimana c’è stata la Nobel lecture di William Nordhaus, che l’Accademia di Stoccolma ha premiato per i suoi studi sul cambiamento climatico. Val la pena di riportare una citazione: “L’economia mostra una verità sconveniente sulle politiche sul cambiamento climatico: per essere efficaci esse devono aumentare il prezzo della CO2 e, così facendo, correggere l’esternalità del mercato. Se si vuole essere efficaci, il prezzo deve aumentare”.
Gli eventi francesi suggeriscono però anche un’altra verità sgradevole: l’aumento di prezzo dei carburanti rischia di penalizzare soprattutto i più poveri. Un obiettivo come quello di limitare i danni del cambiamento climatico rischia di essere percepito come un ulteriore fattore che genera iniquità. Pensare al futuro del pianeta è una preoccupazione riservata solo ai ricchi?
Il contrasto irrisolto tra efficienza ed equità
Negli scorsi giorni un altro premio Nobel, Jean Tirole, ha scritto un articolo sul Journal du Dimanche in cui elenca alcune proposte volte ad attenuare l’impatto della tassa sui carburanti sui meno abbienti: per esempio, ridurre il carico fiscale togliendo alcune delle imposte più distorsive e meno efficaci, come gli oneri fiscali che gravano su imprese e lavoratori, dare un bonus energia ai più bisognosi per far fronte all’aumento dei carburanti, facilitare l’accesso al credito per chi volesse dotarsi di tecnologie meno inquinanti, usare il gettito della tassa sui carburanti per opere di adattamento e di attenuazione dell’impatto del cambiamento climatico.
Ma il problema del diffuso senso di mancanza di equità del sistema economico, nota Tirole, è più ampio di quello legato alla tassa sui carburanti. Infatti la protesta dei gilet gialli, partita da lì, si è spostata su un piano più ambizioso, quello del recupero del potere di acquisto, anche attraverso una netta riduzione della pressione fiscale.
Ma come si può ridurre la pressione fiscale sui più poveri senza privare i cittadini di servizi essenziali? Un primo elemento è quello di fare pagare di più i ricchi. La decisione di Emmanuel Macron di riformare alleggerendo una forma di tassazione patrimoniale ha esacerbato il senso di iniquità dei cittadini francesi. Tuttavia, in passato quell’imposta ha garantito un gettito limitato. Per dare maggiori entrate dovrebbe probabilmente colpire una platea più ampia, con le ovvie conseguenze in termini di consenso. Inoltre, afferma Tirole, occorre spendere meglio, tagliando i programmi di spesa meno efficaci. “Vaste programme”, verrebbe da dire sulla base dell’esperienza italiana della spending review. Infine, e forse è questo il punto più importante, occorre ricordare a tutti che l’economia non è un gioco a somma zero. Le riforme per aumentare la produttività e quindi la crescita sono essenziali. Ma anche in questo caso, non c’è da essere ottimisti. Troppe volte i governi hanno parlato negli anni passati di riforme strutturali senza che poi i cittadini ne abbiano visto gli effetti e oggi molti di loro provano fastidio solo a sentirle nominare.
Il contrasto tra efficienza ed equità non è certo un tema nuovo in economia. Ma è desolante osservare che alle richieste di chi si sente escluso e lasciato indietro oggi siano offerte solo le ricette populiste, come il protezionismo o l’assistenzialismo. La combinazione di fallimento dei mercati e della politica rischia di avere conseguenze difficilmente prevedibili e non certo in senso positivo.

Fausto Pannunzi
14.12.18
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martedì 17 aprile 2018

I puntini sulle I



Torno dall'aldilà politico riapparendo per puntualizzare una questione che mi riguarda direttamente. Nei giorni scorsi ho appreso dell'assoluzione di Paolo Dorigo, sindacalista Cobas, dall'accusa di interruzione di pubblici uffici,  per via di un Consiglio Comunale un po' movimentato nel 2012 (!) in occasione della questione dell'occupazione di alcuni locali comunali da parte di una famiglia di immigrati. Dal Marocco mi pare, ma non è questo l'importante. Comunque rimando agli articoli di stampa sotto riportati per ricostruire la vicenda.  Per la questione intervenne anche quel gran pezzo di storia televisiva che fu la trasmissione "Quinta Colonna". All'epoca ero consigliere, presente alla seduta, fui successivamente sentito dalla Digos. Dopo anni fui convocato lo scorso anno a testimoniare al processo. Sostanzialmente dissi che il Dorigo c'entrava poco nel confusione che portò alla sospensione della seduta del Consiglio, c'era sì calca e confusione, come in altre occasioni del resto, ma fu la gestione della Presidenza a rendere non proseguibile la seduta. Fu permessa interlocuzione tra i consiglieri e chi era oltre la balaustra dell'emiciclo, senza, però, che questi fossero ammessi a parlare (bastava lasciar fare un intervento come in altri casi...) più volti chiesi di sospendere per trovarci come capogruppo e raddrizzare la situazione e più volte suggerii l'estrema ratio della seduta a porte chiuse. Nulla. Nessuna capacità di reazione, nessuna volontà di ascolto - l'ignoranza e i preconcetti rendevano la Presidenza diffidente di me - che cavolo d'interessi avrei avuto a dare suggerimenti balzani? Boh! Inoltre fu di fatto lasciata in balia del pubblico la referente del settore politiche sociali, vero obbiettivo della protesta. Potei solo mettermi al suo fianco, per farle sentire almeno vicinanza fisica. Scrivo questo perché leggo sulla Nuova una ricostruzione che in quanto testimone, pur non venendo citato nominalmente, sarei stato "smontato" dall'avvocato della difesa. Al di là che non ricordo nemmeno se mi abbia rivolto domande, ricordo solo una certa stizza alle mie risposte del PM e della sig.ra Giudice, che erano del tenore di cui sopra, e perché sostanzialmente affermavo che il Dorigo poca parte aveva avuto in quella confusione. La stampa giustamente ha ignorato la mia deposizione - ringrazio quando si riesce a evitarmi esposizione mediatica, ma gradirei anche mi rendesse in questa, e in altre occasioni, la cortesia di una ricostruzione coerente dei fatti. O per lo meno delle mie parole.


Rassegna stampa Veneto - Giovedì, 05 aprile 2018
Proteste in Consiglio, assolto Paolo Dorigo. Il sindacalista aveva sostenuto gli occupanti di alcuni alloggi Ater
      
MIRA - Caso degli alloggi Ater chiusi e occupati in via Borromini, a Mira: il Tribunale di Venezia assolve Paolo Dorigo dall'accusa di interruzione di ufficio per gli scontri avvenuti in consiglio comunale. Il fatto risale all'ottobre del 2012 quando in consiglio, durante la discussione sul concetto di acqua come bene comune, intervennero alcune famiglie indigenti, anche extracomunitarie, con figli piccoli, accompagnate dal sindacalista Paolo Dorigo. Il gruppo chiese all'allora sindaco pentastellato Alvise Maniero di ripristinare l'acqua nelle unità occupate. Al centro del contendere alcuni alloggi chiusi ed inagibili in via Borromini, che richiedevano diverse manutenzioni. In municipio scoppiò un'accesa discussione, l'assemblea fu sospesa per oltre un'ora. Dorigo fu denunciato per interruzione di pubblico ufficio. Nei giorni scorsi il giudice del Tribunale di Venezia, Sonia Bello, ha assolto il sindacalista dall'accusa legata alle proteste sorte durante l'assemblea. Nel corso degli ultimi due anni sono stati sentiti diversi testimoni dell'accusa e della difesa (il Comune di Mira si costituì parte civile). Nel corso dell'ultima udienza è stato ascoltato l'ex consigliere di Mira fuori dal Comune Mattia Donadel, il quale ha fatto presente che la sospensione del consesso, a suo parere, era stata determinata da una incapacità di gestione da parte della presidente del consiglio. Alla luce degli ultimi elementi, anche il pubblico ministero ha chiesto il proscioglimento dell'imputato. Il giudice ha assolto Dorigo. (L.Gia.)   IL GAZZETTINO - Giovedì, 05 aprile 2018

«Critica politica legittima» Assolto Paolo Dorigo
      
Secondo il tribunale di Venezia non ha interrotto il consiglio comunale di Mira. Il sindacalista dello Slai Cobas protestava contro il taglio d'acqua a 5 famiglie

MIRA - La protesta in consiglio comunale a Mira di Paolo Dorigo referente del sindacato Slai Cobas era legittima, non si è trattato di interruzione ai pubblici uffici ma di un legittimo esercizio del diritto di critica politica. A sentenziarlo è stato ieri il Tribunale di Venezia con il giudice Sonia Bello. La protesta si era tenuta la sera del 9 gennaio 2013 nella sala consiliare del municipio. Dorigo era intervenuto in Consiglio mentre si discuteva dell'acqua come bene comune. «Proprio mentre si discuteva di questo tema», spiega Dorigo, «in via Borromini il Comune, all'epoca con il sindaco Alvise Maniero, aveva disposto la chiusura dell'acqua potabile. Protestavamo perché il Comune aveva lasciato senza luce e acqua ben cinque famiglie indigenti. Come manifestanti ce ne andammo solo alle 2 dopo vari interventi e un dibattito, senza che Maniero avesse accettato in alcun modo in quella sede, neppure la proposta, giratagli dal capogruppo Pd, di una assemblea al Parco di via Borromini che portasse alla verifica dello stato della palazzina». Per questa protesta era scattata la denuncia per interruzione di pubblici uffici. Ieri il giudice del Tribunale di Venezia, ha assolto l'imputato al termine del processo, svoltosi in due anni, dopo aver sentito i testimoni dell'accusa e della difesa, patrocinata dall'avvocato di Padova Emanuele Zanarello. Durante l'ultima udienza, è stato sentito l'ex consigliere comunale di "Mira fuori dal Comune" Mattia Donadel il quale ha fatto presente secondo Slai Cobas, che la sospensione del consiglio comunale a suo parere era stata determinata dalla incapacità di gestione da parte della allora presidente del Consiglio comunale Serena Giuliato, del Movimento 5 Stelle. «Nell'udienza precedente i testimoni dell'accusa», spiega lo Slai Cobas, «sono stati smontati dall'avvocato Zanarello, che ne ha fatto emergere le contraddizioni». All'ultima udienza lo stesso pubblico ministero ha chiesto l'assoluzione perché il fatto non sussiste. Il pm ha anche prodotto il volantino distribuito in consiglio e fatto oggetto di indagini penali della Digos avviate su richiesta del Comune di Mira, che non si è costituito poi parte civile. «Il pm», spiegano il sindacato e l'avvocato Zanarello, «ha richiamato esplicitamente l'art. 51 del Codice penale (diritto alla critica politica) oltre ad aver rilevato che non vi era stata invasione dell'emiciclo del Consiglio, che nulla è emerso nel merito a carico di Dorigo. Ha valutato il valore morale dell'impegno politico e sociale dell'imputato ed ha concluso chiedendone l'assoluzione». (Alessandro Abbadir) LA NUOVA VENEZIA - Giovedì, 05 aprile 2018